Leggere cambia la nostra vita. Leggere, a sentire non letterati o scrittori, ma medici e psicoterapeuti, aiuta a risolvere problemi, a migliorarci, addirittura a guarire. Dobbiamo allora dire addio ai pregiudizi che ci facevano guardare ai libri come ad una perdita di tempo, adatti ai nullafacenti che non avevano voglia di lavorare? Sì, secondo la Biblioterapia, la terapia dei libri: il libro come strumento di promozione e crescita, che invece di isolare, come si pensava una volta, offre gli strumenti per affrontare la realtà. E sembra che sia soprattutto il romanzo ad aiutare le persone a “trovare similitudini con la propria vita”, come sostiene una delle più importanti esponenti della Biblioterapia in Italia, la dottoressa Rosa Mininno.
A pensarci bene la psicoterapia non ha tutti i torti. Le tenebre della cecità di un grande del Novecento, Borges, sono state sconfitte dai libri, libri che a loro volta hanno fatto nascere altri libri: basti pensare all’influenza dello scrittore argentino (che papa Francesco ha frequentato per un periodo) sul “Nome della rosa” di Umberto Eco e su altri libri.
Un romanzo di Chesterton, “L’uomo che fu giovedì”, scritto nel 1908, narra la storia di un uomo comune che si trova circondato dalle forze del buio e che nello stesso tempo inizia a capire le ragioni che hanno permesso l’ingresso del male nell’animo di alcuni: l’isolamento, ad esempio delle persone sensibili che si sentono emarginate dalla sicurezza degli opulenti “borghesi”: “voi siete gli uomini grandi e grossi e sorridenti, in azzurro e bottoni!
Voi siete la legge, e non siete mai stati spezzati!” urla l’anarchico in faccia a colui che egli reputa un benpensante e che è invece solo un poliziotto-poeta. “Io vi maledico perché siete sicuri!”, conclude la sua requisitoria, rivelando che non il male assoluto è alla base della sua volontà di distruggere l’ordine, ma l’emarginazione del povero in spirito cui invece, questa è la conclusione dello stupendo romanzo, Cristo ha promesso la beatitudine.
Ma se i libri sono così importanti, addirittura terapeutici, allora ci sarebbe da chiedersi perché la gente legge così poco. “Perché siamo diventati dipendenti da una serie di cose che ci illudono di darci la felicità, chiarisce la Mininno: emergono dei veri e propri quadri clinici strutturati da dipendenze, come quella da internet, dal sesso, dal lavoro, dallo shopping compulsivo, dal gioco d’azzardo, dal cellulare”. Figuriamoci se abbiamo tempo da perdere con un pezzo di carta, pensa la gente, ed invece è quello che ci salva, perché consente il ritrovamento di un tempo e di uno spazio per noi, una solitudine che non è negativa come si crede, ma che anzi ci aiuta a crescere.
La lettura ci rende, secondo alcuni neuro-scienziati, comprensivi, aperti, in grado di andare incontro alle ragioni degli altri.
E in effetti quante volte ci siamo trovati a parlare con qualcuno, a uscire dal nostro guscio confrontandoci su un libro? In fondo, in alcuni romanzi è nascosta una riflessione profonda sullo spirito di una intera epoca, come “La montagna incantata” di Thomas Mann, “L’uomo senza qualità”, di Robert Musil, “Il grande Gatsby” di Scott Fitzgerald o “I promessi sposi”, di Manzoni, per tacere della Divina Commedia.
In fondo i tanto contestati classici hanno nutrito lo spirito e il cuore di intere generazioni, permettendo anche l’apertura verso l’altro. “Sì, è così – conferma Mininno -, i classici sono un riferimento importante per la biblioterapia: Tolstoj, Pirandello, Dostoevskij, Flaubert e tanti altri rappresentano un momento essenziale di riflessione su di sé e su i propri rapporti con l’altro”. Anche quando è narrata una sconfitta, come in Madame Bovary? “Soprattutto in questi casi: perché lo scrittore ci invita ad andare oltre quella resa, a individuarne i motivi e a costruire una vita oltre i falsi miti”.
Fonte: www.agensir.it